Lectorinfabula/Migranti

Il ghetto di Borgo Mezzanone

Sabato 17 settembre, alle 10.30, nella sala degli Aranci del Palazzo vescovile di Conversanofandango-libri_fandango-libri-ghetto-italia_coperta-350x453 (Bari), per la dodicesima edizione del festival Lectorinfabula, il sociologo Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet (ingegnere camerunense, sindacalista della Flai-Cgil) presenteranno il loro libro Ghetto Italia – I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento, edito da Fandango nel 2015 (interviene Francesco Errico). Si tratta di un reportage nei luoghi dove vivono e vengono sfruttati i braccianti stranieri in Italia, dalla Puglia al Piemonte, passando per Basilicata, Campania e Lazio. Pubblichiamo un brano estratto dal primo capitolo.

Una stazioncina. Un bar. Un ufficio postale. Un discount. Quattro panchine. Quattro palazzine. Una sola strada che lo taglia in due. Un giardinetto. Una fontana. Una decina di vecchi all’ombra… Il niente. Questo è Borgo Mezzanone, una debilitata frazione di Manfredonia nota alle cronache perché ospita uno dei più grandi Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo d’Italia. Con Yvan vogliamo visitare un ghetto diverso da quello di Rignano. Più concentrato e familiare. Ma prima ci fermiamo al Cara. Parcheggiamo davanti all’ingresso, sotto lo sguardo vigile delle videocamere della polizia e dell’esercito, e prendiamo un sentiero che corre parallelo al recinto del centro. Il sentiero taglia un campo di grano, fino ad arrivare a un buco in una seconda rete metallica, oltrepassata la quale giungiamo nel bel mezzo di una vecchia pista d’atterraggio militare.

“Lì abitano quelli che hanno avuto un visto come rifugiati”, mi dice Yvan indicandomi alcune decine di container.

Alla nostra sinistra una cabina dell’Enel da cui parte un penzolante cavo elettrico che alimenta tutti i container di questo spazio autogestito. Alla nostra destra, file di prefabbricati abitati per nazionalità: nigeriani, pakistani, siriani, eccetera. Ci saranno almeno trecento profughi con diritto d’asilo, qui dentro.

“Perché non se ne vanno? Sono liberi”.

“Non sanno dove andare. Finché stavano nel Cara avevano una ragione, adesso che sono rifugiati a tutti gli effetti non hanno idea di cosa fare. Aspettano. Almeno qui hanno tutto. C’è la luce, la televisione, i bagni…”.

Aspettano una sorte diversa, certo, ma son cascati male, perché Borgo Mezzanone è davvero una stazione senza speranza.

“Lavorano?”.

“Qualcuno come bracciante, ma pochi”.

Torniamo indietro e riprendiamo la strada che da Borgo Mezzanone porta a Manfredonia. Intorno alla provinciale, piccoli caseggiati della prima metà del novecento sono occupati da famiglie di immigrati.

“Rumeni”, dice Yvan. “Vengono qui ogni estate, da almeno dieci anni. Sono ottimi lavoratori sottopagati”.

Dopo un paio di chilometri svoltiamo a sinistra. Proseguiamo per meno di un chilometro, dove una fumigante baraccopoli circonda una vecchia e distrutta masseria del secolo scorso.

“Benvenuto dai bulgari!”, esclama Yvan scendendo dall’auto e portandosi istintivamente una mano alla bocca.

La puzza di plastica bruciata mi dà subito il voltastomaco. Piccole roulotte scassate, baracche di tela e plastica, capanne di legno marcio si dispongono in ordine sparso intorno alla vecchia masseria distrutta. Tra l’erba che circonda l’accampamento bruciano rifiuti e legna, e si ammonticchiano le deiezioni dei cani e degli umani.

Seguo Yvan fino alla baracca di una donna che mangia del pollo da una scodellina. È seduta su uno sgabellino da campeggio, ha il seno scoperto e allatta un bambino nudo e grassottello. Madre e figlio sono sporchi, indicibilmente sporchi. La donna si alza, ci saluta. Non parla italiano, ma ci fa comprendere che anche se suo marito, il capo del campo, è fuori, possiamo fare un giro. Ci raggiunge un’altra donna, bassa e grassa, con due bambini di tre o quattro anni. Tutti a piedi nudi e sudici. Si presentano in una lingua incomprensibile, dolce e dura allo stesso tempo. Io non capisco niente, ma sento che la capacità di adattamento all’orrore in cui vivono è antica quanto la terra da cui provengono. Ci offrono del pollo, che rifiutiamo. Dell’acqua, che non beviamo. Dei wafer, che non mangiamo.

Entriamo nel pieno dell’accampamento e noto che le automobili presenti – anche queste targate Bulgaria, Romania e Polonia – sono più vecchie di quelle che ho visto a Rignano. Più vecchie e distrutte. Utili per ricavarci qualche pezzo di ricambio, o per farci soltanto un altro viaggio dentro l’Europa.

“Da questo campo non si esce senza caporale”, dico. “Non hanno via di scampo. Solo il caporale li può portare da qualche parte”.

Ed è così, infatti. Non hanno autonomia, nemmeno una bicicletta. Del resto, anche se volessero raggiungere Borgo Mezzanone, non vi troverebbero nulla e nessuno li capirebbe.

“Loro stanno in Puglia anche otto mesi”, mi dice Yvan.

“Si fanno l’inverno qui?!”.

“Qualcuno sì”.

“Ma questi bambini, questi ragazzini”, dico indicando quelli che sostano sotto la pensilina di una baracca poco lontano, “non vanno a scuola?”.

Yvan alza le spalle. Non lo sa. Non lo sa nessuno. Imparano la vita, se vita si può chiamare, vivendo così. Ci vengono incontro proprio quei ragazzini, con timidezza, quasi impauriti. Dopo averci fissato senza troppa curiosità, si allontanano e cominciano a salire su una montagnola colorata di stracci, vetri e rifiuti. Sembrano giocare  nel mezzo di una grande installazione di Pistoletto, ma non è così. La cascata di immondizia che occupa e sovrasta quel che resta della masseria, è diventata il loro parco giochi, nella fetida e acidula nebbia della plastica corrosa dalle fiamme. Ho difficoltà a trattenere il vomito. Yvan se ne accorge e mi strattona, mi porta dietro la masseria, dove ci sono altre baracche e tende, dove per fortuna l’aria è più respirabile. Qui, un gruppo di tre uomini sulla trentina bevono birra mangiando dallo stesso piatto un misto di verdura, panna e salumi affumicati. Sono a torso nudo per il caldo, alticci e nervosi. Yvan ci parlotta un poco e scopre che hanno deciso di non tornare più in Italia. Questa sarà l’ultima stagione.

“Se vivono così, ovvio che non tornano!”, esclamo.

“Non per questo. Per il salario”.

Uno dei tre mi fissa, si porta una mano al petto tatuato e dopo al volto, come fosse in gabbia. Poi mi dice qualcosa: Itàlia no buono tuènti iùro. Meglio Bulgària, polìsia!

Venti euro al giorno, questo mi sta dicendo, avendomi confuso per un poliziotto. La loro paga giornaliera è una miseria a cui vanno sottratte le spese del vitto per le famiglie. In questo ghetto vivono circa quattrocento persone, appartenenti a meno di una decina di famiglie bulgare. Sono tutti imparentati. Condividono la stessa sorte e hanno deciso, unanimemente, di non tornare più. Io e Yvan apprezziamo la scelta, ma io provo un senso di vergogna perché questi braccianti lavorano in Italia, e questi bambini dovrebbero andare a scuola e giocare nei giardini italiani, non intossicarsi ed ammalarsi scorrazzando tra i rifiuti in fiamme in un punto sperduto della Capitanata.

Sono afflitto, più afflitto di Yvan, perché tutto quel che vedo risuona rabbiosamente contro di me.

“Non è colpa tua, Leo”, mi fa Yvan mettendomi una mano sulla spalla.

“Tu credi? Almeno tu c’hai provato, a cambiare le cose”, gli dico pensando alla rivolta che ha capeggiato a Nardò nel 2011, al suo lavoro di sindacalista, di difensore degli schiavi.

“La prossima volta ci proviamo insieme”, dice e io annuisco.

Ci allontaniamo e torniamo alla macchina esausti. In una baracca un vecchio appende a un gancio un sanguinolento capretto appena scuoiato, mentre davanti all’uscio un bambino siede nudo per terra. Una scena quasi bucolica: se non ci fosse tutta questa puzza di modernità bruciata e corrotta, potrei anche commuovermi di quel vecchio e di suo nipote.

“Sono quasi quattromila i bulgari che lavorano in questa provincia”, dice Yvan mentre ripartiamo.

“Se vivono tutti così, c’è da rivolgersi al tribunale dei diritti universali”.

“Il sistema è simile a quello dei centrafricani, ma i bulgari sono davvero quelli messi peggio”.

Me ne sono reso conto. I bulgari sono l’ultimo anello di una catena che avvolge la Puglia, da Nardò fino a qui, senza soluzione di continuità.

“Lavorano anche d’inverno?”.

“Sì, quelli che restano fanno i guardiani oppure i trattamenti nei campi, ma prendono sempre lo stesso salario giornaliero e anche di meno. In primavera fanno la raccolta degli ortaggi o dei carciofi per delle ditte molto grandi che esportano quasi l’ottanta per cento del prodotto in Nord Europa, in Germania e in Francia”, risponde Yvan mentre ci immettiamo sulla statale per Bari.

“E i pomodori?”.

“Lo stesso, ma per i pomodori metà del raccolto resta in Italia, viene trasformato nelle grandi aziende della Campania e del Lazio, come la Cirio, la De Santis e la Doria. La Princes, invece, che è di proprietà della Mitsubishi Corporation, è praticamente la sola grande impresa a trasformare il pomodoro in Capitanata”.

Faccio una ricerca veloce sul mio smartphone e trovo che sul sito Princesgroup.com l’azienda si presenta come una importante multinazionale alimentare – con sedi operative in Italia, Inghilterra, Giappone e Isole Mauritius – estremamente rispettosa della sostenibilità ambientale, ma non trovo nulla sulla tracciabilità del pomodoro raccolto. Lo stabilimento, nella zona industriale vicino a Incoronata, è stato acquisito nel 2012. Nello stesso anno nasce la Princes Industrie Alimentari (PIA), di cui questo stabilimento è, cito testualmente dal sito: ‘Il fulcro centrale delle nostre operazioni di trasformazione del pomodoro […]. Una delle più moderne ed efficienti strutture di lavorazione del Pomodoro in Europa. La fabbrica di 120.000 metri quadri lavora circa 300.000 tonnellate di pomodoro fresco all’anno’. Sorrido a pensare a quelle trecentomila tonnellate di pomodori: una montagna di sudore, fatica, lavoro di cui nessuno conosce la natura, se legale o no.

“Quando arriva la stagione, qui lavorano tutti per i pomodori”, prosegue Yvan. “Se per caso un bulgaro si fa male, lo sostituisce la moglie o un figlio, o una figlia. Hanno sempre manodopera da mettere a disposizione del caporale. La raccolta non accetta ritardi, perché il prodotto deve raggiungere i grossisti e le industrie della salsa. I bulgari restano qui per questo motivo”.

“Come fanno i rumeni…”.

“Quando vengono in famiglia, sì. E anche loro hanno i loro ghetti, oppure occupano dei vecchi edifici. A Foggia, per esempio, quasi trecento rumeni vivono in un vecchio capannone alle spalle dei silos dell’ex pastificio Tamma. Ci sono anche delle prostitute molto giovani, lì dentro, come puoi immaginare”.

“Immagino”, dico accelerando.

Ci lasciamo la provincia di Foggia alle spalle, diretti a Bari, a casa. Ci fermiamo in un autogrill per un caffè. Intorno a noi, nel caldo insopportabile, ruotano mollemente decine di pale eoliche. Le loro sagome longilinee interrompono il piatto e monotono profilo della Capitanata. Non sembra possibile che una terra così placida e noiosa possa ospitare migliaia di esseri umani, stipati come bestie in decine di accampamenti e di isolati casolari. Ma le cose stanno così, e nessuno pare volersene occupare davvero.

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