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Ermanno Rea, l’Ilva e Napoli

 

In ricordo di Ermanno Rea, scomparso lo scorso 13 settembre a 89 anni, pubblichiamo un’intervista di Alessandro Leogrande allo scrittore e giornalista napoletano, pubblicata nel numero di ottobre 2002 della rivista letteraria Lo straniero, pochi mesi dopo la pubblicazione del suo romanzo La dismissione, con protagonista un operaio dello stabilimento Ilva di Bagnoli. Nella conversazione si parla anche di Mistero napoletano, romanzo-indagine-diario sulla morte di una giornalista comunista napoletana nei primi anni della guerra fredda.

Cosa ti ha portato a scrivere due libri come “Mistero napoletano” e “La dismissione”?

Ho cominciato a scrivere libri a sessant’anni. Precedentemente avevo scritto tanto, ma da giornalista. Ho lavorato per molti giornali: “l’Unità”, “Paese sera”, “Vie nuove”,  “Panorama”, “il Giorno”… Ma ho sempre pensato che era necessario liberarsi dal giornalismo per cogliere la realtà. Ho sempre pensato, oggi più che ieri, che scrivere dei libri non significa inventare storie di sana pianta, non si tratta di inventare la vita. Nella grande stagione del romanzo, fino alla prima parte del Novecento, le società occidentali pativano il deficit di informazione, la carenza di notizie. In un certo senso, lo scrittore, inventando storie, riempiva questo vuoto, raccontava il mondo. Ma oggi la situazione è radicalmente diversa. Dalla mancanza di informazione si è passati al suo esatto contrario: l’eccesso di notizie, qualcosa che ci travolge quotidianamente, un magma incandescente in cui c’è di tutto, un magma che cresce progressivamente tale da diventare oppressivo. Se in passato lo scrittore aveva il compito di inventare una realtà deficitaria, oggi al contrario ha il compito di interrompere questo flusso irreale: ha il compito di bloccare la macchina che macina la quantità di “fatti” che ci scivolano addosso. Per me lo scrittore è colui che afferra una notizia, un fatto, dei personaggi, ed è capace di leggervi dentro, non permettendo cioè che anche quella cosa passi, come tutte le altre, sopra le nostre teste. Il caso-Ilva è uno di quegli infiniti eventi che si verificano quotidianamente e che ci vengono buttati addosso, ma che, dopo essere balenati davanti ai nostri occhi per uno o due giorni, vengono scalzati da un altro fatto. Il compito della letteratura è quello di leggere in profondità con tutti i mezzi a sua disposizione: l’analisi sociologica, l’antropologia, la storia, il giornalismo, l’invenzione, il sentimento…

I tuoi libri nascono dall’incrocio dei generi: vanno oltre il giornalismo, ma vanno anche al di là della sociologia, come se l’unica forma di adesione al reale pienamente soddisfacente fosse l’adesione all’uomo, con tutte le sue contraddizioni e i suoi nodi irrisolti. Questo in letteratura è oggi molto raro; non solo perché il giornalismo quotidianista è vincente, ma anche perché gran parte della letteratura “più realista” è risucchiata verso questo tipo di giornalismo. Quanto ha contato per te l’ idea che solo la letteratura può spiegare l’uomo, al di là di ogni altra forma di indagine?

Moltissimo. Il problema è questo: c’è la storia, ci sono i grandi eventi, c’è la nostra vita collettiva e poi ci sono i singoli soggetti, le donne e gli uomini. Se si vogliono indagare i grandi eventi si hanno a disposizione determinati strumenti di indagine: la storia, la sociologia, la politologia. Se si vuole indagare l’ uomo singolo vi sono altri strumenti, la psicologia ad esempio. Ma poi c’è l’incrocio. Se si vuole abbracciare in uno sguardo unico l’uomo sullo sfondo della storia o della società, lo strumento è la letteratura. La letteratura che prescinde dalla società e dalla storia, l’intimismo che si fa romanzo intorno al proprio ombelico non mi interessa. Nella mia vita il pubblico e il privato si sono sempre intrecciati e fusi. Non mi sono mai sentito un uomo e basta, una monade isolata. Tutte le vicende che ho vissuto le ho vissute all’interno di questo rapporto, in una prospettiva che fondeva la mia vita dentro la vita degli altri. Io penso che la letteratura migliore, almeno quella che più mi appassiona, è quella che riesce a fare tutto questo: collocare la dimensione umana dell’individuo dentro un contesto sociale e politico molto forte. E credo che per la letteratura e per il romanzo questo sia ancora vero, nonostante si sia affermata una letteratura molto autoreferenziale.

Quando parli di contesto sociale e politico forte, penso che nei tuoi libri emerge uno sguardo sulla società e sulla politica “dopo l’ideologia”. Non mi riferisco solo a “Mistero napoletano” e alla cappa asfittica dello stalinismo meridionale che tu descrivi, ma anche a “La dismissione”: la fabbrica e la comunità che intorno a essa si è creata sono scrutate a fondo, ma l’ideologia della fabbrica e l’operaismo sono assenti.

Il nodo centrale è il rapporto tra la fabbrica e la città, perché è dentro questo rapporto che ci sono le risposte a tutte queste domande. Perché un libro sull’Ilva? La dismissione può essere letta in vari modi. Innanzitutto è la storia di un uomo che viene assunto a vent’anni e che cresce all’ombra della fabbrica. È ambizioso, vuole affermarsi, studia sui carri-ponte di notte perché vuole andare avanti e quando è diventato una sorta di dominus dell’impianto, quando ha raggiunto parte di ciò che aspirava, si sente dire che l’Ilva chiude e che deve aiutare a smontare l’impianto che verrà interamente ricostruito in Cina. Già questo legittima il romanzo, un disegno letterariamente forte. Ma se allarghiamo il campo di osservazione, ci accorgiamo che ci sono altri motivi, e in qualche modo si capisce perché questo libro va posto in relazione con il mio precedente libro su Napoli: Mistero napoletano. L’Ilva è stata un topos, una trave portante delle ragioni etiche politiche ideali che hanno dato sostanza al mio impegno di militante, e a quello di tutta la mia generazione, negli anni cinquanta.

L’Ilva nasce agli albori del Novecento con l’idea di aiutare Napoli a uscire dalle secche del proprio sottosviluppo. Attraverso il lavoro Napoli avrebbe guadagnato quella condizione di metropoli europea che per tanti versi aveva già raggiunto, ma che per tanti altri versi non aveva ancora raggiunto. Da che mondo è mondo, noi sappiamo che la storia della modernizzazione passa attraverso la rivoluzione industriale, che ci piaccia o non ci piaccia. L’Occidente si era modernizzato attraverso la rivoluzione industriale ed era questo il sogno che si presentava anche alle porte di Napoli.

Ho sempre trovato di grande interesse la storia che precede la nascita dell’Ilva. Alla fine dell’Ottocento a Napoli si era creato un gruppo di potere molto forte intorno a tre uomini: il sindaco Summonte, il direttore del “Mattino”, Scarfoglio, e, su tutti, l’onorevole Casales. Un gruppo di giovani socialisti diede vita a un giornaletto che si chiamava “La propaganda” e denunciò apertamente tutte le malefatte e le camorre della gestione del potere cittadino, facendo nomi e cognomi e accusando pesantemente Casales. Questi fu costretto a querelare i ragazzi e tutti pensavano che, in un’aula di tribunale, sarebbero stati condannati, nessuno avrebbe mai pensato a una sentenza favorevole ai giovani socialisti. Ma è proprio quello che successe e fu uno scandalo in tutta Italia. Casales fu costretto a dimettersi e il governo, che fino a quel momento era rimasto alla finestra, è costretto a fare qualcosa e diede vita all’Inchiesta Saredo. L’inchiesta parlamentare analizzò minutamente tutte le amministrazioni comunali che si erano succedute a Napoli dal 1860 fino alla fine del secolo, facendo luce sulla natura del malgoverno cittadino. In un tale contesto, Francesco Saverio Nitti, che aveva sempre sostenuto l’industrializzazione e che per questo era stato sempre contrasto da Scarfoglio (il quale lo accusava di inseguire la “chimera industrialista”, sostenendo che Napoli poteva benissimo svilupparsi con il turismo e l’agricoltura), riuscì a imporre le leggi speciali per la città. Il discorso di Nitti era molto pragmatico: poiché la borghesia nazionale aveva bisogno di un’acciaieria (anche per le proprie mire coloniali), la si doveva fare a Napoli: questo avrebbe almeno permesso alla città di risollevarsi. La nascita dell’Ilva è da subito un’utopia salvifica per la città.

Alla fine della seconda guerra mondiale il mito nittiano diventò automaticamente il nostro mito. Il nostro meridionalismo si nutriva di questo. Il sogno del socialismo e della rivoluzione non era in cima ai nostri pensieri: in realtà la vera battaglia era la modernizzazione della città. E saranno state queste, poi, le posizioni di Amendola e dell’amendolismo. Il nostro sogno era quella di vedere Napoli risorgere dalle ceneri del sottosviluppo e l’Ilva sarebbe servita a tutto questo. Ci dicevamo: sì, è vero, la fabbrica occuperà un luogo bellissimo e prima o poi andrà via, ma non prima di essere entrata nel vicolo e di averlo bonificato. Ma non prima di aver creato lavoro, non prima di averci liberato dal sottosviluppo. C’è un libro molto bello di Raffaele La Capria, L’armonia perduta. Questo libro parla di città dalla storia incompleta, come se a un certo punto la storia di queste città si fosse bloccata, fermata. La Capria parla di Napoli, Trieste… Sono le città che non sono riuscite ad avere quell’approdo verso la modernità che invece ha caratterizzato tutte le grandi metropoli europee. Napoli è una città dalla storia incompleta, paralizzata. Noi sognavamo che questo processo si rimettesse in moto e arrivasse alle sue conseguenze. L’Ilva materializzava questo sogno. E quando decenni e decenni dopo la fabbrica è stata chiusa, in me è scattata una molla: quella di fare un inventario delle tante speranze, dei tanti sogni, di tutte le nostre illusioni. Ma il bilancio non è positivo, il destino di Napoli non è mutato. Non voglio dire che la presenza dell’Ilva non abbia portato a niente. La fabbrica ha aiutato ad accrescere la coscienza civile della città, è stata un fattore di democrazia enorme, però evidentemente non è servita a far scattare quella molla che noi pensavamo dovesse scattare. La fabbrica non ha fatto di Napoli una città risolta.

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