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Alle porte d’Europa. Raccontare le migrazioni in musei e archivi

Pubblichiamo l’intervento di Itala Vivan alla giornata di studi su migrazione e archivi culturali trans-mediterranei che si è tenuta il 9 novembre scorso a Bari, nella sala conferenze di palazzo Chiaia-Napolitano. L’evento è stato organizzato dall’Università di Bari Aldo Moro (dipartimento ForPsiCom – Scienze della formazione, Psicologia, Comunicazione e dottorato in Scienze delle relazioni umane) e dalla Aiscli (Associazione italiana di studi sulle culture e letterature di lingua inglese) e rientra nel progetto «S/Murare il Mediterraneo». Itala Vivan, accademica e scrittrice, insegna Studi culturali e postcoloniali all’Università Statale di Milano. Dal 1975 al 1979 ha anche insegnato all’Università di Bari.

Se devi lasciare la tua patria, salendo
sulla nave, distogli lo sguardo dai
confini che ti hanno visto nascere 
Pitagora

Lungo la costa sud di Lampedusa si erge la Porta d’Europa – opera dell’artista Mimmo Paladino – e dall’estremo lembo meridionale del continente guarda l’Africa che ha dirimpetto. La struttura allude all’arco di trionfo romano, di cui richiama la funzione di controllo del passaggio in entrambe le direzioni, entrata e uscita, e su cui insiste nel suo proporsi come discorso storico. Se infatti l’arco di trionfo della classicità narrava guerre e vittorie per mezzo di teorie processionali scolpite in bassorilievo, la Porta di Paladino è impastata di oggetti stralunati e smarriti, radunati anch’essi in bassorilievo come una processione migratoria, quasi venissero verso di noi o si allontanassero verso chissà dove. Ma non sono eserciti di guerrieri, bensì oggetti di uso comune, scarpe e scodelle e numeri, in un ordine di categorie insensate. Oggetti in materiale deperibile che si stanno gradatamente deteriorando e che presto cadranno a pezzi, a rivelare la caducità delle cose umane e l’ineluttabile scorrere del tempo.

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Mimmo Paladino, Porta d’Europa – foto Wikimedia

La Porta d’Europa, gialla contro il mare azzurro, si pone come emblema del racconto delle migrazioni sia attuali sia anteriori nel tempo. Piedi che camminano e tracce sporadiche di transumanze umane, resti di sbarchi e naufragi recenti, così simili a tanti altri nella storia: un racconto silenzioso ma potente, in cui alle didascalie museali si sostituiscono l’eco delle onde che si abbattono sugli scogli e l’occhio del sole che guarda impietoso. La collocazione della Porta d’Europa nel cuore del Mediterraneo sta a significare l’esigenza di una raffigurazione memoriale che segni un crocevia di itinerari umani, che porga orecchio al brusìo di voci senza più corpo, segnali di passaggio di creature disperse qua e là.

È da qui che vorrei iniziare il mio percorso di indagine su archivi e musei della migrazione – un cammino che si avverte come necessario nel contesto culturale contemporaneo. Oggi infatti assistiamo a un’ondata di eccezionali flussi migratori che non sono certo destinati a fermarsi sino a che non cambieranno le condizioni di vita e sussistenza sul pianeta terra – e in Italia ne siamo spettatori diretti, attraverso la fatale porta di Lampedusa aperta sul Mare di Sicilia. È un fenomeno che ognuno vuole capire e che molti  cercano di analizzare e raccontare, dall’interno e dall’esterno, da uno e dall’altro versante della Porta d’Europa. Così l’indagine e il racconto si fanno archivio e museo, ricorrendo a strumenti familiari della nostra cultura basati sulla raccolta di oggetti.

Ed è proprio dalla raccolta di oggetti che è nata nei secoli passati l’idea di museo, ove gli oggetti di natura più disparata vengono collezionati a costruire una narrazione – oggetti sottratti all’oblio e alla distruzione grazie al significato che viene loro conferito da un qualche aspetto delle culture umane. Oggetti che divengono, così, portatori e trasmettitori di significato, ingranaggi di un racconto che si vuole ricostruire o immaginare, elementi di una sequenza narrativa mediata che li trasforma in cose, in senso heideggeriano.

Come scrive il filosofo Remo Bodei,

Salvare gli oggetti dalla loro insignificanza o dal loro uso puramente strumentale vuol dire comprendere meglio noi stessi e le vicende in cui siamo inseriti, giacché le cose stabiliscono sinapsi di senso sia tra i vari segmenti delle storie individuali e collettive, sia tra le civiltà umane e la natura. (Bodei 117)

Sono cose che assurgono al ruolo di feticcio, in quanto dotate di un surplus di valore aggiunto rispetto alla loro natura materiale, e che con la loro straordinaria onnipresenza confermano quanto  aveva osservato Karl Marx quando parlò di feticismo degli oggetti di consumo nella civiltà capitalistica. Si può quindi affermare, sull’onda di tali constatazioni, che l’istituzione museale, originata all’alba dell’epoca moderna ma divenuta importante istituzione pubblica e potente strumento politico nel corso dell’Ottocento con l’esplosione del sistema capitalistico, risulti oggi sempre più funzionale al meccanismo della comunicazione e del consenso politico nell’attuale fase tardo capitalistica (se mi si consente di usare questa definizione di comodo) – una civiltà che pone l’oggetto al centro del tragitto fra desiderio e godimento, come ha commentato Arjun Appadurai.

Anche nei confronti del fenomeno migratorio si afferma dunque il bisogno di raccogliere,  collezionare, archiviare oggetti per farne cose significanti che creino narrazione e memoria. E fioriscono, insieme a racconti e cronache per parole e immagini, e accanto agli archivi di documenti, quei magazzini di oggetti materiali che vengono chiamati musei.

I musei della migrazione, però, non sono nati oggi. Nei paesi plasmati da immense immigrazioni europee come  Stati Uniti e Canada, ma anche Australia, i musei dell’immigrazione sono già antichi. Basti pensare all’Ellis Island Immigration Museum e al Tenement House Museum di New York, esempi principe, l’uno di museo creato nel 1990 dall’alto, cioè dalle istituzioni pubbliche, l’altro di museo nato dal basso, cioè dalla memoria privata.  A Ellis Island il museo è una glorificazione dell’epopea della migrazione intesa come integrazione e trasformazione. Come ebbe a dire, anzi, a preconizzare St John de Crèvecœur nel 1782, “Here individuals of all nations are melted into a new race of men, whose labours and posterity will one day cause great changes in the world” (What Is an American?, 70). Gli europei che passavano per Ellis Island,  luogo di controllo dei nuovi venuti, vi sono descritti come candidati ad attraversare le porte del Paradiso per poi affrontare un cammino di apprendimento di quell’Americanness che li avrebbe portati a trasformarsi appunto in americani. E la collocazione del museo, nelle sale già teatro del doloroso itinerario verso l’accettazione attraverso un mitico crogiolo alchemico, enfatizza il messaggio generale, confermato dalla benigna presenza della vicina Statua della Libertà con il suo faro di luce civilizzatrice.

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Ricostruzione della cucina della famiglia Levine, arrivata dalla Polonia nel 1890, nel Tenement Museum di New York – foto Battman Studios

Più recente, anzi recentissimo—il progetto è stato avviato nel 2003 e il museo è stato aperto nel 2012 — il caso della Cité nationale de l’histoire de l’immigration di Parigi, sorta tra accesi dibattiti e infinite contestazioni e situata dentro il Palais de la Porte Dorée, già sede dell’Esposizione Coloniale del 1931 e quindi divenuto museo delle arti coloniali. La coincidenza di tale collocazione è tutt’altro che casuale, e sta a significare la continuità ideale fra la storia del colonialismo imperiale (con relativa emigrazione francese dalla metropoli alle colonie) e quella dell’immigrazione proveniente soprattutto dalle ex colonie, divenuta importante in epoca postcoloniale, a partire dal secondo dopoguerra. La duplice natura della Cité è esemplificata nella compresenza, accanto alle attuali esposizioni, dei vasti affreschi e bassorilievi stile Art Déco creati per illustrare la bontà del sistema coloniale e la felicità dei popoli ad esso soggetti. Tali immagini oggi creano un effetto straniante e insistono sul layout del museo dell’immigrazione, interrogandolo e quasi chiedendo ulteriori chiarimenti storici. Il museo della Cité, infine, è un caso interessante anche perché è in parte strutturato come un archivio, una raccolta ragionata di dati e documenti, e in parte come percorso espositivo basato su oggetti che si riferiscono all’immigrazione e la raccontano, per via diretta o allusiva e ricorrendo a tecniche avanzate da museo interattivo che creano una sorta di conversazione con il visitatore.

Mentre i paesi dalla storia imperiale narrano l’immigrazione, altri paesi europei hanno un passato di emigrazione (flusso da dentro a fuori) che diviene argomento delle loro collezioni. Tralasciando, fra gli altri,  gli importanti musei dell’emigrazione siti nelle città portuali di Brema e Amburgo, passo direttamente all’Italia, che come è noto sino alla soglia degli anni ‘60 del secolo scorso è stata un paese di fortissima emigrazione.

A partire dall’unificazione, infatti, l’Italia ha esportato molti milioni di emigranti nel mondo intero – si calcola circa 24 milioni soltanto negli Stati Uniti. Eppure sino a tempi recentissimi non esisteva in Italia alcun museo nazionale dell’emigrazione. Esso è stato infine costituito a Roma nel 1995, negli spazi della gipsoteca sotto il trionfale Vittoriano, e quindi denominato Museo nazionale dell’emigrazione (MEI). Creato sulla base degli archivi documentaristici ufficiali, è stato gradualmente arricchito di una narrazione espositiva (sostanzialmente egemone) formata anche di alcuni oggetti, foto, lettere, cimeli storici e materiale a stampa, oltre a un settore contenente materiale cinematografico che interessa la vicenda migratoria italiana. Il disinteresse delle istituzioni per il fenomeno dell’emigrazione e per le voci lontane degli italiani perduti al proprio paese è a dir poco stupefacente, e non può non venire attribuito a una volontà di cancellazione del fenomeno stesso, vissuto dai tanti italiani in esso coinvolti come una vera e propria espulsione dal paese natale. Tale cancellazione si era già affermata durante il ventennio fascista, che rifiutava l’immagine di un’Italia di (poveri) emigranti per insistere invece su quella di un paese gonfio di glorie imperiali passate e presenti – dove queste ultime avrebbero dovuto aprire agli italiani un cosiddetto “spazio vitale” ove insediarsi in veste di colonizzatori. Sappiamo bene come andò a finire quella storia, disastrosamente crollata sin dagli anni ‘40: ma è mai possibile che si dovesse aspettare tanto per creare uno straccio di archivio-museo nazionale di quell’emigrazione che per decenni e decenni aveva segnato l’esistenza di così tanti italiani?

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Il Vittoriano visto da piazza Venezia, Roma – foto Paolo Costa BaldiCC BY-SA 3.0

Ad aggiungersi ai tristi aspetti della vicenda del MEI, comunque, v’è un ulteriore disastro:  la sua recentissima chiusura a tempo indeterminato. Ufficialmente non è stata fornita alcuna spiegazione a tale fatto, ma corre notizia che a marzo 2016 la ditta che gestiva l’organizzazione ha chiuso il museo e si è portata via i reperti in esso contenuti.

Se l’emigrazione è stata colpevolmente trascurata dalla memoria istituzionale nazionale, sono invece fiorite varie iniziative minori a livello locale, che si sono soffermate sulla portata appunto locale dell’esodo migratorio italiano e sulle caratteristiche culturali delle singole comunità di italiani all’estero – ottimo esempio il museo Cresci di Lucca, che narra i lucchesi nel mondo – oppure si sono proposte di illustrare determinati aspetti del fenomeno, come il museo di Genova che parla del porto da cui partivano i bastimenti diretti verso le Americhe.  Non a caso, il Museo Memoria e Migrazioni di Genova è nato da una costola del locale Museo del Mare, all’interno del complesso portuale. Un aspetto positivo di questo museo è che le esposizioni si concludono spiegando come in Italia si sia passati da una fase di emigrazione a un’altra di immigrazione, e indugiando sulle caratteristiche culturali di alcuni gruppi di immigrati soprattutto africani. A qualche anno di distanza dalla nascita di questo museo, tuttavia, si potrebbe osservare che in realtà oggi l’esodo italiano risulta tutt’altro che concluso, dato che negli ultimi anni il numero degli emigrati (soprattutto giovani diplomati e laureati) ha superato il numero degli immigrati, registrando un totale di 94.126 nel 2013, pari a quasi il doppio del numero dei lavoratori immigrati nello stesso periodo in Italia. (IX Rapporto Italiani nel mondo 2014, della Fondazione Migrantes. Su questo totale, in maggioranza maschi, la fascia d’età 18-34 è la più rappresentata).

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Museo Memoria e Migrazioni, Genova

La Nave della Sila, Museo narrante dell’emigrazione è un piccolo ma interessantissimo museo sorto nel 2006 per iniziativa privata (Mirella Barracco e Fondazione Napoli Novantanove), appunto sui monti boscosi della Sila vicino Camigliatello. È un museo senza oggetti, costituito da soli audiovisivi organizzati in modo strategico lungo un filo narrativo, steso da Gian Antonio Stella e Vito Teti, che prende avvio dalle condizioni socioeconomiche che hanno determinato la partenza dei proletari calabresi per giungere, attraverso il viaggio, alle problematiche incontrate nei luoghi di destinazione. Questo minuscolo ma esemplare museo ha rilevanti funzioni didattiche e culturali in una Calabria già segnata da forte emigrazione. Nel 2013 la Nave della Sila ha generato un’appendice museale tecnicamente assai avanzata e di grande impatto scenografico (opera di Wild Projection Studio, WPS) denominata Mare Madre e costituita da un semplice container senza finestre al cui interno vengono proiettati in continuo degli spezzoni documentaristici sul viaggio dei nuovi migranti e sulle condizioni della loro accoglienza. Il risultato è di straordinario effetto drammatico, e testimonia l’intelligente attenzione della Fondazione per la memoria delle migrazioni.

Il tema del viaggio, del passaggio per mare, risulta sempre cruciale nel racconto della migrazione e si congiunge idealmente con il tema del Middle Passage al centro della vicenda della schiavitù atlantica. A partire dalle riflessioni di Paul Gilroy in Black Atlantic, la narrazione della schiavitù ha visto nel passaggio per mare il suo momento chiave – quello che, nella nave negriera, bara di morte e insieme culla di futuro, ha dato origine alla modernità dell’Atlantico Nero. E così la storia dei secoli passati si salda con la storia del presente, riportandoci a Lampedusa, dove la vicenda dell’approdo migratorio ha innescato una contestata e complessa storia che ruota intorno a musei ed archivi.

Lampedusa, come ha detto la sua sindaca Giusi Nicolini, è “una zattera gettata in mezzo al Mare Mediterraneo” (2012, lettera dopo l’elezione). Nei secoli, vi sono transitati soldati, mercanti e viaggiatori, e vi si sono affermate varie dominazioni, portando con sé segni e  oggetti delle loro civiltà. Le tracce di questa lunga storia si sono largamente deteriorate e disperse, sino a che la vicenda di una migrazione dai risvolti tragici ha portato l’isola all’attenzione del mondo intero. L’alone di notorietà che si è creato intorno a Lampedusa ha accelerato il processo di costituzione di un Museo archeologico delle Pelagie, inaugurato nel giugno 2016 e sito in un edificio di proprietà pubblica nella centrale via Roma, là dove essa giunge a guardare il mare.

Il museo, però, è nato in mezzo a polemiche che hanno creato profondi dissapori. Si era pensato di aprire, insieme all’archeologico, anche un museo delle migrazioni che raccogliesse reperti ed oggetti abbandonati dagli immigrati in transito o portati a riva dalle onde dopo i naufragi, e per far questo si voleva inglobare ed esporre le miriadi di cose già raccolte e conservate dal collettivo Askàvusa (Askàvusa significa ‘la scalza’, dal dialetto lampedusano) facente capo all’artista Giacomo Sferlazzo. Askavusa, tuttavia, ha respinto l’ipotesi, poiché non approva la musealizzazione delle cose scampate ai naufragi.

Oggi dunque a Lampedusa sussistono vari archivi e musei. Da una parte il Museo archeologico istituzionale, curato da museologi esperti, e dal giugno all’ottobre 2016 corredato di un settore temporaneo costituito di prestiti illustri, fra i quali l’Amorino dormiente di Caravaggio proveniente dagli Uffizi e alcuni bellissimi pezzi dal Museo del Bard di Tunisi. C’è anche una piccola raccolta di oggetti personali di migranti naufragati – un prestito del Dda della Squadra Mobile di Palermo. Il tutto è stato denominato Verso il museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo. Dall’altra parte della scogliera, poco sotto via Roma, c’è Porto M, sede di Askàvusa e della raccolta di reperti provenienti da approdi e naufragi delle recenti migrazioni—ogni genere di cose di uso comune o personale, con anche libri lettere e fotografie (lettere e fotografie, però, non sono visibili al pubblico), disposte su scaffali alle pareti, appese ai muri o al soffitto, e arrangiate secondo un ordine significativo (categorie, senso, capacità di racconto) ma non classificatorio. E prive di qualsiasi scritta. Complessivamente, questa esposizione risulta di forte impatto concettuale più che visivo e interroga il visitatore che si trova a confrontarsi con una vista inedita e sconcertante, con un’eccedenza di senso che solo l’arte è in grado di trasmettere.

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La facciata di Porto M, Lampedusa

Ma perché Askàvusa ha rifiutato di esporre in una sede pubblica i tanti oggetti raccolti fra il 2009 e il 2014 nelle barche abbandonate e destinate a essere distrutte? E che cosa rappresenta la collezione di Porto M? Così spiega lo stesso Sferlazzo:

Noi di Askàvusa stiamo cercando di capire come mostrare le cose che sono in una dimensione storica. Noi stiamo storicizzando qualcosa che è in atto. Abbiamo in mano oggetti di persone, vive o morte. Ma come li trattiamo? […] Le cose possono raccontare mille storie e dare mille segnali – una borraccia dice che la persona ha attraversato il deserto, un biberon dice la presenza di un bambino, le bottiglie con ancora dentro l’acqua narrano una storia bruscamente interrotta. […] Gli oggetti raccolti hanno un potere di chiamata che si sarebbe spento se sottoposto a etichettizzazione. Qui [a Porto M] c’è un allestimento collettivo di cose vive che fanno comparire persone vive, […] Vogliamo che chi entra qui si ponga delle domande, si interroghi sulle migrazioni e le guerre che le determinano, sui nuovi schiavi, sulle leggi europee che serrano i confini. […] Non ha senso un museo delle migrazioni che allontani queste cose dalle domande che esse contengono in sé. Non ha senso rinchiudere queste cose in un museo, nelle vetrine, dietro delle didascalie. (intervista a Itala Vivan, 28 settembre 2016)

Le spiegazioni di Sferlazzo, condivise dal collettivo, mettono in questione le modalità espositive del museo. Esse, tuttavia, hanno radice in una più ampia visione politica che vede nei reperti delle migrazioni la testimonianza palpabile, e parlante, degli errori di un sistema sociale e politico che quelle emigrazioni avrebbe provocato. Così infatti afferma un altro componente di Askàvusa:

Dal nostro punto di vista il problema rimane il sistema economico attuale che ha fatto del profitto il fine ultimo di ogni azione. Il capitalismo neoliberista di cui l’UE è una delle espressioni politiche fa ogni giorno migliaia di vittime che non hanno spazio nei TG e nelle rappresentazioni di Stato, non servendo a giustificare alcun tipo di politica: ne sono semplicemente le vittime. Nessuno parlerà di loro, nessuno nominerà i loro nomi. (dal sito di Askàvusa, consultato 1.XI.2016)

I comuni oggetti quotidiani tramutati in tragiche cose grazie alla traversata per terra e per mare divengono portatori di un forte messaggio politico antagonistico e acquisiscono una funzione di rilievo agli occhi di chi li scorge, ma anche di chi li detiene, all’interno delle stanze scavate nella roccia e imbiancate a calce che ospitano Porto M. Pentole e scodelle, bottiglie di plastica, abiti e salvagente, fiale con farmaci e cosmetici, radioline, telefoni e mangianastri hanno subìto una trasformazione alchemica e sono diventati potenti trasmettitori di significato. È per questo che il collettivo Askàvusa non ha acconsentito a cederli al museo lampedusano, ma neppure alle Cité de l’immigration parigina né al Museo delle culture di Marsiglia che li avevano richiesti per esporli nelle rispettive sedi. Questi pezzi disseminati dai naufragi, questi legni multicolori che già erano fiancate di barche, le tante lettere e fotografie trovate nelle cuciture di abiti dove i migranti le avevano nascoste per portarle con sé in viaggio, sono più preziosi di oro e gioielli, perché costituiscono dei vivi e inesauribili significanti culturali e politici.

Il tremito di emozione che comunicano le cose di Porto M trova riscontro in quanto scrive Alessandro Mendini commentando l’esposizione Quali cose siamo, da lui stesso curata per il Design Museum presso la Triennale di Milano del 2009:

Oggetti come fossero stelle cadenti, oggetti arrivati da vari luoghi e da situazioni una indipendente dall’altra, ma tutte motivate da un significato. Sono lì per un motivo. Ciascuno di loro ha (ed è) una storia, Messi assieme, questi oggetti creano delle relazioni, dei rimandi, segni, segnali e informazioni complesse. Appoggiati l’uno all’altro, essi formano una visione, un museo…[…] Pezzi di archeologia contemporanea da analizzare, situazioni cui pensare secondo prospettive inconsuete. (Mendini 31)

Forse l’emozione che prova il visitatore – o, comunque, chi guarda gli oggetti di culto di Porto M – nasce anche, freudianamente,  da una implicazione che le cose esposte richiedono e comportano, ossia da un qualche livello di partecipazione al lutto conseguente a quell’immane perdita che è il naufragio. Gli oggetti stessi, come gli umani, sono dei sopravvissuti alla tragedia e ne portano addosso i segni psichici. Chi ne ha individuato e riconosciuto la valenza luttuosa non li può più abbandonare.

L’esperienza del contenzioso sui musei che lacera l’isola di Lampedusa conferma ancora una volta come i musei costituiscano oggi un vivo campo di battaglie culturali e possano offrire spazi aperti a dialoghi e dibattiti che altrimenti rimarrebbero tacitati nel silenzio e nell’isolamento di società individualistiche e poco disponibili a scambiare autentica comunicazione.

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Porto M, Lampedusa

Vorrei concludere questa breve analisi ragionata citando il piccolo museo personale di Mohsen Lihidheb a Zarzis, sulla costa tunisina del Maghreb. Mohsen è un pensionato che ha raccolto oggetti sospinti a riva dal mare – il Mare Mediterraneo che porta laggiù corpi di naufraghi, rottami di imbarcazioni e ogni sorta di rimasugli dei viaggi dei migranti. La collezione di Mohsen è un ordinato accumulo di reperti classificati per categorie ed esposti alla vista, a formare una specie di panorama post naufragio, quasi una città lasciata da chi se n’è andato altrove. Questi paesaggi quasi museali conservano tracce di presenze e passaggi umani, in un’atmosfera vagamente cimiteriale e straniante. Colpisce, in questa come in altre iniziative – a Lampedusa e altrove – l’insorgenza sempre più frequente e generalizzata di un bisogno di celebrazione della memoria attraverso la raccolta di oggetti in sé privi di valore commerciale, ma da tesaurizzare in vista di una loro potenziale funzione significante. A fronte di realtà di indicibile drammaticità quali sono quelle delle migrazioni attuali attraverso il Mare Mediterraneo, il museo sta diventando una forma espressiva sempre più popolare e più ampiamente praticata nel contesto delle società contemporanee.

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